Non si può raccogliere un fiore senza disturbare una stella
una nuova ecologia della salute e della medicina
Parlare oggi di salute significa riconoscere che la medicina, nella sua eccessiva specializzazione, si è cristallizzata in una rigida visione fenomenica e somatica della malattia, dimenticando che ogni individuo è la manifestazione di un’unità psicofisica indivisibile.
Nella visione strettamente meccanicistica della scienza il corpo umano è concepito come un insieme di parti che possono essere riparate o sostituite a piacimento. La conferma di questa tendenza proviene dallo straordinario progresso nei settori della chirurgia, della batteriologia, della virologia, ma allo stesso tempo dall’incapacità, da parte della stessa medicina, di comprendere i meccanismi alla base di molte malattie degenerative (affezioni cardio-vascolari e cerebrali, cancro, sclerosi multipla, ecc.).
Il concetto di patologia, inteso come alterazione strutturale e funzionale di una porzione limitata del corpo, dimostra i suoi limiti se rapportato a criteri di valutazione di tipo olistico.
Il progresso tecnologico si muove di pari passo con uno sfruttamento economico e ambientale che rasenta il “cinismo”: tutto è diventato merce di scambio, all’insegna di un consumo egoistico illimitato che non tiene conto dei contenuti della coscienza e del senso di responsabilità verso le generazioni future.
Questa situazione è la diretta conseguenza di una prospettiva forzatamente antropocentrica, caratterizzata da un innato atteggiamento predatorio nei confronti della Natura.
La razza umana, pur essendo particolarmente avvezza alle strategie di espansione territoriale, non è mai riuscita a vivere in completa simbiosi con l’ambiente naturale: la difesa dagli agenti atmosferici, la necessità di proteggere i corpi, la costruzione di rifugi, la ricerca e la trasformazione del cibo, sono stati, da sempre, i principali ostacoli alla sua sopravvivenza.
L’incontrastato desiderio di controllo e di dominio, nasconde un senso d’inadeguatezza nei confronti di una Natura considerata ostile; l’uomo, infatti, a differenza degli altri animali, non ha mai avuto a disposizione uno spazio pronto ad accoglierlo.
Le specifiche “mancanze” biologiche e istintuali umane, sono state compensate dalla capacità di “maneggiare” e assoggettare il mondo, mettendo a profitto sorprendenti doti di adattabilità, plasticità neuronale e creatività.
Alla base di queste problematiche vi è l’innata tendenza a tracciare confini per delimitare e distinguere la diversità. Ma queste divisioni possono essere superate e metabolizzate in senso positivo, adottando un’interpretazione “ecologica del mondo” che tenga conto di un’etica delle relazioni, in base alla quale una linea di separazione è anche un confine di contatto, in cui gli opposti si incontrano e creano equilibrio.
È necessario un repentino cambiamento di prospettiva affinché l’uomo non sia più considerato il padrone della creazione ma una parte di un complesso sistema naturale.
Non a caso alcune discipline scientifiche moderne (fisica quantistica, scienza del caos, medicine alternative, psicologia transpersonale, ecc.) ci offrono un’interpretazione della realtà fondata su una visione sistemica della vita, frutto di una rete di rapporti complessi e inseparabili.
La meccanica quantistica, ad esempio, ci presenta un quadro interpretativo fondato sul ruolo della coscienza come elemento catalizzante della formazione della realtà (principio d’indeterminazione di Heisemberg). L’osservatore non è più un elemento separato dalla realtà, come vuole la scienza di stampo cartesiano (dogma dell’oggettività): attraverso il ruolo attivo della coscienza, l’atto di osservazione diventa un’attività dalle potenzialità creative.
Ciò significa che non possiamo percepire la realtà per quello che è veramente, ma solo nel modo in cui scegliamo di vederla (in base al metodo d’indagine scelto). Ogni atto di misurazione (osservazione), infatti, influisce sul sistema osservato attivando il passaggio dal possibile al reale, nella logica non “localistica” di un “universo partecipativo”, dove ogni singola parte è inscindibilmente legato al tutto.
Ancora una volta scopriamo delle verità già patrimonio della Tradizione antica. Ad esempio, il pensiero alchemico rivendica il diritto all’Unità del Tutto, operando il risveglio di quei principi archetipici che alimentano il senso dell’universalità e il valore sacrale del mondo; nel processo di trasmutazione la materia è radicalmente unita allo spirito attraverso un continuum corpo-psiche (attraversato da temporalità diverse) che oggi apre prospettive di ricerca del tutto nuove e inaspettate.
Alla luce dei moderni sviluppi della meccanica quantistica (basti pensare al cosiddetto teorema di Bell, incentrato sull’interazione a distanza tra particelle subnucleari), l’antico detto degli spagiristi medievali: “non si può raccogliere un fiore senza disturbare una stella”, assume un significato simbolico di interesse universale e di grade attualità.
In questa totalità indivisa, mente e materia non sono sostanze separate ma entità complementari che partecipano alla formazione di un campo esistenziale dinamico e indiviso.
Nella tradizione dello yoga esiste un termine sanscrito per descrivere tale stato: sunyata, che significa “il vuoto pieno di ogni cosa”. Nell’essenza sottile di questo vuoto sono racchiusi il brahman (realtà assoluta) e l’Atman (realtà individuale); da questa polarità scaturisce maya, l’aspetto relativo e sempre mutevole dell’esistenza.
Il concetto di “verticalità”, come posizione di dominio dell’uomo, sta per essere gradualmente sostituito da una visione “allargata” della vita e della scienza, ispirata ai principi dell’eco-sostenibilità, delle reti interconnesse, delle influenze non-localistiche, dei campi morfogenetici, dove biologia, medicina, fisica e spiritualità trovano sottili affinità di contenuto e di sintesi, inimmaginabili fino a pochi decenni fa.
La consapevolezza della presenza di una complessa rete di relazioni ha portato i biologi all’elaborazione della cosiddetta “ipotesi Gaia” (il nome trae origine dalla dea greca della Terra), attraverso la quale il nostro pianeta appare come un super-organismo, costantemente impegnato a mantenere in equilibrio le proprie funzioni vitali (omeostasi terrestre). In perfetta analogia con l’uomo, le cellule di questo grande sistema possono essere equiparate a tutti gli esseri viventi, mentre le vene, il sangue e il cervello rappresentano, rispettivamente, l’acqua dei fiumi e del mare, e l’immensa mole d’informazioni prodotte dagli esseri viventi.
Anche questa “nuova” interpretazione trova un precedente nell’antica concezione della Madre Terra che ha accompagnato l’uomo nel suo primo cammino evolutivo.
Oggi si parla diffusamente di antropologia medica, in particolare di etnobotanica e di varie forme di etnomedicina (come la mineraloterapia e la zooterapia), non per futili motivi, ma perché rappresenta una fonte di conoscenze utili a comprendere meglio il concetto di salute e di malattia.
Da non sottovalutare sono le problematiche semantiche legate all’uso di certe espressioni come alternativo, naturale, dolce, convenzionale, allopatico, omeopatico, floriterapico, bioenergetico, sottile, vibrazionale, quantico, sciamanico, ecc.: una giungla di termini che meriterebbe forse maggiore chiarezza e semplificazione, al fine di garantire un’onesta informazione e per salvaguardare la credibilità di molti operatori seri e volenterosi.
Alla luce di queste considerazioni e tenuto conto che le popolazioni consumatrici di farmaci industriali sono in netta minoranza rispetto al resto dell’umanità (il 75-80% della popolazione mondiale è legata a sistemi di cura naturali), la
crescente diffusione nella società occidentale delle medicine alternative, in particolare della fitoterapia, riflette da una parte la volontà di garantire la continuità e la conservazione di un patrimonio medico tradizionale, dall’altra l’impellente bisogno di ristabilire un dialogo costruttivo con il nostro habitat naturale.
Non bisogna dimenticare che il regno vegetale rappresenta una grande risorsa nutrizionale, medicinale culturale, e una miniera di principi attivi, in parte ancora inesplorata (solo nella foresta tropicale le popolazioni locali conoscono e utilizzano circa 2000 specie di piante medicinali).
Non a caso, negli ultimi decenni l’industria farmaceutica ha intensificato gli studi e le ricerche su numerosi principi attivi di origine vegetale per sfruttarne le potenzialità farmacologiche.
Autore: Sandro Di Massimo